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Anche il «greenwashing» configura una pratica commerciale sleale

Nicola Lucifero e Ludovica E. A. Colombo*

L”ecologismo di facciata” è una condotta da sanzionare alla luce della transizione verde. La casistica di comportamenti nel mirino. Senza controlli scoraggiate le pratiche virtuose

Lo scorso 28 febbraio 2024 il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione europea hanno adottato la Direttiva (UE) 2024/825 con le disposizioni di modifica ed integrazione della Direttiva (CE) 2005/29, in materia di pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori e della Direttiva (UE) 2011/83 sui diritti dei consumatori nel mercato europeo.

L’intervento normativo nasce dalla consapevolezza del Legislatore europeo circa la crescente tendenza degli operatori economici ad utilizzare asserzioni ambientali ingannevoli, marchi di sostenibilità non trasparenti ed altri supporti informativi finalizzati a veicolare il messaggio che i propri prodotti, nonché le loro imprese, siano rispettosi o più rispettosi dell’ambiente rispetto ad altri, in modo da attrarre l’attenzione dei consumatori, ad oggi sempre più sensibili agli aspetti legati alla sostenibilità, circolarità e rispetto ambientale ed ecologico di ciò che acquistano.

Tale fenomeno, meglio conosciuto come “greenwashing” o “ecologismo di facciata” compromette non solo le scelte dei consumatori, ma anche la concorrenza tra imprese, le quali, prive di controllo, non sono incoraggiate alla produzione di beni più ecosostenibili, con conseguente aumento dell’impatto negativo sull’ambiente.

Alla luce delle criticità rilevate, la nuova Direttiva, adottata con l’obiettivo di assicurare una più adeguata protezione dei consumatori, garantendo a questi ultimi di assumere decisioni di acquisto informate e contribuendo così a modelli di consumo più sostenibili, ha ampliato l’ambito applicativo della citata direttiva 2005/29/CE, prevedendo che l’utilizzo di asserzioni ambientali ingannevoli, l’indicazione di caratteristiche ambientali o sociali dei prodotti o l’esibizione di marchi di sostenibilità poco credibili o trasparenti devono essere ritenute condotte volte a configurare delle pratiche commerciali sleali ingannevoli.

In particolare, le pratiche commerciali sleali trovano la loro disciplina nella più volte citata direttiva 2005/29/CE, che pone un divieto generale di realizzare condotte, anche omissive, contrarie alle norme di diligenza professionale ed idonee a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori, alternandone sensibilmente la capacità di prendere una decisione commerciale consapevole (cfr. art. 1).

Al riguardo, la direttiva prende in considerazione due tipologie di pratiche commerciali sleali, che, a seconda dei casi, si distinguono in pratiche “aggressive” o “ingannevoli”.

Nel dettaglio, le novità normative introdotte dalla nuova Direttiva sulla responsabilizzazione del consumatore per la transizione verde, in linea con gli obiettivi climatici recentemente imposti dal Green Deal, hanno comportato una modifica sia delle disposizioni di cui agli artt. 6 e 7 della direttiva 2005/29/CE, che contemplano le condotte che possono essere considerate pratiche commerciali ingannevoli a seconda dei casi, sia dell’elenco di cui all’Allegato I della medesima direttiva, riguardante le pratiche commerciali che devono in ogni caso ritenersi sleali.

Una delle principali novità che merita di essere segnalata è sicuramente l’introduzione del concetto giuridico di “asserzione ambientale”, meglio conosciuta come “green claim”, che è stato espressamente inserito all’art. 2, lett. o) della direttiva 2005/29/CE. Tale espressione viene pertanto qualificata come qualsiasi messaggio o rappresentazione, inserita nel contesto di una comunicazione commerciale, avente carattere non obbligatorio ai sensi della normativa europea o nazionale, in qualsiasi forma, che asserisce o implica che un determinato prodotto, categoria di prodotto, marca o operatore economico ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente oppure che sia meno dannoso rispetto ad altri prodotti, categorie di prodotto, marche o operatori economici, oppure ancora che ha migliorato il proprio impatto nel corso del tempo.

A tal proposito, la nuova Direttiva ha provveduto a modificare come detto la direttiva 2005/29/CE introducendo due ipotesi specifiche di “azioni ingannevoli”, da valutarsi caso per caso, precisamente al paragrafo 2 del citato articolo 6. La prima ipotesi consiste nella formulazione di un’asserzione ambientale relativa a prestazioni ambientali future, come potrebbe essere – a mero titolo esemplificativo – l’indicazione secondo cui entro una determinata data l’operatore economico in questione si ponga l’obiettivo di ridurre di una determinata percentuale le emissioni di carbonio.

Secondo gli obiettivi del Legislatore europeo, affinché tali asserzioni non siano considerate ingannevoli devono includere impegni e obiettivi chiari, oggettivi, pubblicamente disponibili e che siano definiti dall’operatore in un piano di attuazione realistico e dettagliato, che dovrà includere tutti gli elementi necessari per adempiere a tali impegni (cfr. Considerando 4 della nuova Direttiva).

Mentre, la seconda fattispecie considerata quale pratica commerciale ingannevole si identifica nel pubblicizzare, come vantaggi per i consumatori elementi che risultino, in realtà, irrilevanti e non direttamente connessi alle caratteristiche del prodotto o dell’impresa e che pertanto potrebbero indurre i consumatori a credere che siano più vantaggiosi per questi ultimi, l’ambiente o l’impresa rispetto ad altri prodotti o imprese di operatori economici dello stesso tipo sulla base di elementi non pertinenti alla tipologia di prodotto. L’art. 7 della direttiva 2005/29/CE, recante disposizioni circa le pratiche commerciali qualificate come “omissioni ingannevoli” – da intendersi per tali le omissioni circa le “informazioni rilevanti” cui il consumatore medio ha bisogno per effettuare una scelta, nonché una decisione consapevoli – è stato altresì integrato con una specifica disciplina dedicata agli operatori economici che forniscano un servizio di raffronto fra prodotti, basato sulle loro caratteristiche ambientali o sociali (o su aspetti relativi alla circolarità, quali la durabilità, la riparabilità o la riciclabilità del prodotto).

Pertanto, relativamente a predette attività, vengono considerate le “informazioni rilevanti”, quindi obbligatorie affinché la condotta non integri un’omissione ingannevole, le “informazioni sul metodo di raffronto, sui prodotti raffrontati e sui fornitori di tali prodotti, così come sulle misure presupposte per tenere aggiornate le informazioni”.

Con riferimento, invece alle modifiche che sono state introdotte all’interno dell’elenco di cui all’Allegato I della direttiva del 2005, la nuova Direttiva amplia la lista di quelle pratiche commerciali sleali ingannevoli che sono in ogni caso considerate sleali, senza che siano suscettibili di accertamento della loro ingannevolezza.

In particolare, il Legislatore europeo ha ricompreso in predetta lista: l’esibizione di marchi di sostenibilità, da intendersi per tale qualsiasi marchio di fiducia, marchio di qualità o equivalente, pubblico o privato avente carattere volontario e idoneo a contraddistinguere un prodotto con riferimento alle proprie caratteristiche ambientali (cfr. art. 2, par. 1 lett. b), il cui impiego viene consentito solo ove ricorrano le seguenti condizioni tassative: a) il marchio sia basato su un sistema di certificazione che indichi determinate condizioni minime di trasparenza e credibilità, previo controllo di un terzo indipendente dal titolare del sistema e dall’operatore economico; b) il marchio sia stabilito da autorità pubbliche; c) il marchio relativo agli alimenti sia rappresentato con forme di espressione e presentazioni supplementari degli alimenti di cui all’art. 35 del Reg. (UE) n. 1169/2011.

Le asserzioni ambientali “generiche” formulate in assenza di un’eccellenza riconosciuta dalle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione. La nuova Direttiva precisa che tra le specificazioni che possono rientrare in predetta pratica sono ricomprese le espressioni “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”, “verde”, “amico della natura”, “ecologico”, “rispettoso in termini di emissioni di carbonio”, “biodegradabile”, “a base biologica” o simili. In ogni caso, se la specificazione dell’asserzione ambientale è fornita in termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo, quale il medesimo annuncio pubblicitario, la confezione del prodotto o l’interfaccia di vendita online, tale indicazione non rientra tra le asserzioni ambientali generiche. La stessa nuova Direttiva, al Considerando n. (9) specifica che l’asserzione “imballaggio rispettoso dal punto di vista del clima” sarebbe un’asserzione generica, mentre affermare che “il 100 % dell’energia utilizzata per produrre questo imballaggio proviene da fonti rinnovabili” sarebbe una asserzione specifica che non sarebbe soggetta a questo divieto, fatte salve altre disposizioni della direttiva 2005/29/CE che restano applicabili a tali asserzioni specifiche.

La formulazione di asserzioni ambientali riferite al prodotto nel suo complesso o all’attività dell’operatore economico nel suo complesso, ma che in realtà riguardino solo un determinato aspetto del prodotto o uno specifico elemento dell’attività dell’operatore economico. A titolo esemplificativo, si potrebbe individuare una tale condotta nella indicazione che l’operatore economico dà l’impressione di utilizzare soltanto fonti energetiche rinnovabili, quando in realtà vari impianti dell’operatore economico utilizzano ancora combustibili fossili.

La formulazione di asserzioni, basate sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra, che sostengono che un prodotto, sia esso un bene o un servizio, abbia un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra. Tra gli esempi di tali asserzioni figurano “neutrale dal punto di vista climatico”, “compensazione climatica”, “impronta di CO2 ridotta”. Tale divieto non dovrebbe impedire alle imprese di pubblicizzare i loro investimenti in iniziative ambientali, compresi i progetti sui crediti di carbonio, purché forniscano tali informazioni in modo non ingannevole e conforme ai requisiti stabiliti dal diritto dell’Unione.

Presentare i requisiti che sono imposti per legge, sul mercato dell’Unione, per tutti i prodotti appartenenti ad una data categoria, come se fossero un tratto distintivo dell’offerta dell’operatore economico. Benché gli Stati membri dovranno conformarsi, dandone attuazione, alla Direttiva in esame entro il 27 marzo 2026, applicandone le disposizioni a partire dal successivo 27 settembre, è solo il caso di ricordare che la Commissione Europea, con comunicazione del 26 maggio 2016, ha disposto che le asserzioni ambientali sopra meglio specificate possano in ogni caso rientrare, a seconda delle valutazioni caso per caso, nell’ambito delle pratiche commerciali ingannevoli di cui agli artt. 6 e 7 della direttiva 2009/25/CE.

In particolare, sebbene non vi siano disposizioni normative attualmente in vigore volte ad arginare le pratiche di greenwashing, la Commissione europea ha comunque ravvisato che le asserzioni ambientali devono essere “chiare, specifiche, accurate ed inequivocabili” e che sono considerate ingannevoli se si basano sulla indicazione di benefici ambientali vaghi e generici, anticipando quanto poi previsto in forza della nuova Direttiva esaminata.Si può pertanto ritenere che l’adozione di predetta Direttiva costituisce un notevole passo avanti del nostro Legislatore al fine di rendere sempre più edotto, nonché responsabile, il consumatore non solo circa le scelte da compiere nell’acquisto di un prodotto, bensì sull’effettiva portata dell’impatto ambientale, verde e sostenibile di un’impresa che si dichiara come tale.

*Lca Studio Legale


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